Clifford Geertz
Temi e problemi
dell'antropologia contemporanea:
Temi e problemi dell'antropologia (intervista, parte 1) |
(Domande)
Prof. Geertz, nel Suo recente libro Opere e vite. L'antropologo come autore, Lei si è occupato delle diverse tendenze dell'antropologia contemporanea. Vorrei invitarLa a riassumere per noi alcune delle questioni da Lei sollevate nel libro. Prima, tuttavia, vorrei cominciare da un saggio che Lei ha scritto in precedenza (mi riferisco a Being There), in cui afferma che l'illusione che l'etnografia possa risolversi semplicemente nello scegliere fatti strani o fuori della norma, per poi inserirli in categorie ordinate e familiari, è per così dire "esplosa" da un pezzo. La domanda, allora, è la seguente: quando e in che modo è avvenuta questa "esplosione"? E chi sono, secondo Lei, gli antropologi contemporanei che maggiormente hanno contribuito a distruggere, o quanto meno a indebolire, la concezione da Lei definita magica, o tecnologica, dell'antropologia? (1)
Professore, Lei ha scritto che la capacità degli antropologi di farci prendere sul serio quello che scrivono, più che da un approccio empirico, o da una certa eleganza concettuale, dipende dalla loro abilità nel convincerci che le loro affermazioni sono il risultato di una profonda immersione in un'altra forma di vita, o del fatto di essersi realmente recati sul posto. Che cosa intende dire con questo ? (2)
Professor Geertz, nel Suo libro Opere e vite, Lei ha parlato di due tipi diversi di preoccupazioni che dividono oggi gli antropologi. Da una parte c'è il timore, proprio dello scienziato, di non essere sufficientemente distaccato; dall'altra, però, c'è il timore dell'umanista di esserlo troppo. Lei crede che la differenza fra scienziato e umanista esaurisca la divisione principale all'interno dell'antropologia contemporanea, o ritiene che siano necessarie altre distinzioni? (3)
Come Lei stesso ha scritto, se da una parte è chiaro quello che l'antropologia non è - e cioè una scienza attraverso cui i fatti strani e irregolari vengono inseriti in categorie familiari e ordinate - meno chiaro è, invece, in cosa essa consista realmente. Nel tentativo di dare risposta a questa seconda domanda - che cos'è oggi l'antropologia - Lei ha sollevato il problema dell'antropologo come autore e, più precisamente, ha sollevato due domande precise: come si manifesta la funzione dell'autore nel testo? E ancora: di che cosa è esattamente autore l'autore di un testo? Può spiegarci il significato di queste due domande? Perché le ritiene importanti per la ridefinizione della natura degli scritti di antropologia? (4)
Perché la questione dell'antropologo come autore è tanto importante per ridefinire la natura dell'indagine antropologica? (5)
Professor Geertz, soffermiamoci ora sugli altri tre grandi antropologi di cui Lei si è occupato: prendiamo, ad esempio, Evans-Pritchard: Lei lo ha descritto come un etnografo amante dell'avventura, impegnato a spiegare le società tribali, a renderle chiare e visibili come il ramo di un albero o un acquisto di bestiame; dunque, un atteggiamento molto diverso da quello di Lévi-Strauss. Ce ne vuol parlare? (6)
Certamente, il compito di cui Lei parla sembra molto difficile, soprattutto perché non è facile indicare, o formulare, regole generali sul modo migliore per descrivere gli altri, tenendo sempre presente che si è in qualche modo una parte della descrizione. È corretto esprimersi in questi termini? (7)
Uno dei più importanti aspetti educativi della "buona antropologia" è quello di allontanarsi da una visione troppo centrata su se stessi e di avvicinarsi, invece, a una visione più globale, più orientata verso gli altri. Credo che questo sia un contributo importante sia dal punto di vista intellettuale e culturale che da quello morale e politico, perché, comunque lo si intenda, esso cancella il concetto di unicità, l'idea che noi siamo unici. (8)
(Intervista)
1. Prof. Geertz, nel Suo recente libro Opere e vite. L'antropologo come autore, Lei si è occupato delle diverse tendenze dell'antropologia contemporanea. Vorrei invitarLa a riassumere per noi alcune delle questioni da Lei sollevate nel libro. Prima, tuttavia, vorrei cominciare da un saggio che Lei ha scritto in precedenza (mi riferisco a Being There), in cui afferma che l'illusione che l'etnografia possa risolversi semplicemente nello scegliere fatti strani o fuori della norma, per poi inserirli in categorie ordinate e familiari, è per così dire "esplosa" da un pezzo. La domanda, allora, è la seguente: quando e in che modo è avvenuta questa "esplosione"? E chi sono, secondo Lei, gli antropologi contemporanei che maggiormente hanno contribuito a distruggere, o quanto meno a indebolire, la concezione da Lei definita magica, o tecnologica, dell'antropologia?
Pur essendo difficile trovare una data d’inizio per questo fenomeno, si può dire che esso conosce il suo principio negli anni della Seconda guerra mondiale. Negli ultimi venti o trent'anni, poi, il ritmo di cambiamento si è addirittura accelerato. Si tratta di un cambiamento avvenuto per una complessa serie di motivi, il più importante dei quali è rappresentato dall'enorme crescita del numero di antropologi di professione, e dal graduale aumento di importanza della figura ‘istituzionale’ dell'antropologo. Prima della Seconda guerra mondiale, e fino a non molto tempo fa, l'antropologia era una scienza che occupava uno spazio piuttosto limitato, per cui i singoli studiosi si recavano in luoghi sperduti e si occupavano di tutto, dall'economia alla politica, seguendo un metodo monografico e categoriale. Dopo la Seconda guerra mondiale, però, e in modo particolare negli ultimi venticinque-trent'anni, ci si è un po' allontanati dalle cosiddette "isole primitive" - dalle piccole tribù o dalle isolette sperdute in un punto lontano dell'oceano - mettendone in discussione il concetto stesso, e si è cominciato a riflettere sulla possibilità che quella gente non fosse poi così isolata come si pensava. Ad ogni modo, la maggior parte degli antropologi ha iniziato a rivolgere la propria attenzione anche a quelle che siamo soliti definire "società complesse", o sviluppate. Essi hanno iniziato a lavorare in India e, naturalmente, in Indonesia e in Marocco (come nel mio caso), in Nord Africa, ma anche in Nigeria, in Giappone, in Cina e persino in Francia, in Germania e in Inghilterra; naturalmente, non si possono avvicinare società di questo tipo come se fossero isole sperdute, abitate da tribù isolate. Questo è più che evidente. Si tratta, infatti, di paesi che hanno alle spalle una storia lunga e complicata, con un tessuto sociale estremamente variegato. Ci si trova, dunque, a dover affrontare problemi che, sebbene fossero già presenti in passato, oggi sono molto più acuti. Per quanto mi riguarda, io ho sempre lavorato su società complesse, non mi sono mai occupato di società tribali, o primitive (chiamiamole così, anche se ormai queste definizioni non sono più usate); personalmente, ho lavorato esclusivamente in Indonesia e Marocco. La prima cosa di cui ci si accorge, arrivando in quei paesi, è di non essere gli unici a trovarsi lì per studiare e lavorare. In passato, gli antropologi si ritrovavano completamente soli nei luoghi in cui si recavano, o almeno era questa l'idea che davano, e nella maggior parte dei casi era proprio così. L'antropologo che oggi visita paesi come l'India, l'Indonesia, il Marocco o il Giappone, vi trova economisti, politologi, storici e via dicendo, ognuno dei quali leggerà le sue opere e le criticherà; lui, a sua volta, dovrà leggere e tenere ben presente i risultati delle loro ricerche. Tutto ciò rende l'antropologo meno autonomo rispetto alla materia di cui si occupa, ed è per questo che l'approccio categoriale al modo di presentare la materia non funziona più. L'antropologo dovrà, invece, confrontarsi con discipline affini e metodi diversi o almeno analoghi, di osservazione della medesima società. Se tratterà i popoli dell'India come fossero tribù si troverà immediatamente a fare i conti con un filologo infuriato, o un sanscritista, che lo accuserà di aver ignorato diversi millenni di storia. Ora, questo non sarebbe successo se fosse andato a lavorare nelle Isole Trobriand, o in un luoghi analoghi. Un tempo, del resto, l'antropologia era una strada a senso unico: fino a pochi anni or sono, la maggior parte degli antropologi - in pratica tutti, tranne forse un paio di eccezioni - erano occidentali o europei, soprattutto tedeschi, americani o inglesi; andando indietro nel tempo c'erano parecchi francesi, e qualche italiano (ma non molti, in verità). Oggi, invece, ci sono antropologi che provengono proprio dai paesi che si sono citati, antropologi di fama internazionale nati in India, in Indonesia o in Marocco. Ora, quindi, l'antropologia è diventata una risposta, si è trasformata in una strada a doppio senso, in una sorta di scambio: non siamo più solo noi che studiamo loro, o loro che studiano se stessi, ma sono loro che studiano noi. Si ha, quindi, una specie di dialogo, uno scambio appunto. Quattro o cinque fra i più importanti antropologi degli Stati Uniti, per esempio, sono originari dello Sri Lanka. Oggi, perciò, non è più possibile starsene "in disparte" a scambiare opinioni su un gruppo che non può controbattere, cosa che invece avveniva in passato: quando l'antropologo parlava di un popolo, egli era considerato una sorta di autorità. Oggi, invece, egli deve non solo confrontarsi con altri scienziati, o umanisti, o storici, politologi, economisti, ma deve anche confrontarsi con esponenti di quella cultura e di quella società. Il suo lavoro, infatti, verrà tradotto nella loro lingua. Quasi tutto ciò che ho scritto sull'Indonesia è stato tradotto in indonesiano e parte dei saggi sul Marocco sono stati tradotti almeno in francese (in arabo non ancora, ma anche in questa lingua stanno iniziando ad essere tradotti); non viviamo più in quel mondo isolato dove potevano esserci le ‘massime autorità’ su ogni argomento e si poteva seguire l'approccio che ho definito "categoriale". Alla domanda su chi abbia maggiormente contribuito a questo cambiamento non è facile rispondere: è difficile infatti tracciare una storia completa e monumentale dell'antropologia come se ne può fare una, per esempio, della fisica. Nel caso dell’antropologia si è trattato di un cambiamento generale, avvenuto nel modo che si è già spiegato. Negli Stati Uniti del secondo dopoguerra si è cominciato a lavorare in questo senso in maniera alquanto seria, attraverso i cosiddetti "programmi di area" che riguardavano l'India e la Cina. Uno dei primi studi che vennero condotti fu un lavoro multi-antropologico su Puerto Rico di Julian Steward, coadiuvato da alcuni suoi studenti. Inoltre, se posso permettermi, uno dei primi progetti di questo tipo fu quello svolto da me in Indonesia: anzi, in quella parte del mondo, il mio lavoro è stato il primo in assoluto. Per riassumere, quindi, si può dire che ad essersi trasformata è l'area di studi in generale. In questo quadro il Medio Oriente è rimasto un po' indietro, anche se sta gradualmente recuperando; ci sono inoltre moltissimi studi antropologici sulla società europea svolti dagli stessi europei. Assistiamo a una sorta di rinascita dell'antropologia europea, grazie a personaggi come Hullsford, o Hertsfield. La disciplina nel suo insieme è dunque cambiata, mentre non esistono figure monumentali paragonabili a quelle che c’erano prima della guerra: mi riferisco, ad esempio, a Malinowski con il suo lavoro nelle Trobriand, o a Evans-Pritchard in Sudan; oggi l’antropologia rappresenta un movimento più generalizzato, e ciò perché essa è diventata una professione talmente diffusa da diventare molto più complessa.
2. Professore, Lei ha scritto che la capacità degli antropologi di farci prendere sul serio quello che scrivono, più che da un approccio empirico, o da una certa eleganza concettuale, dipende dalla loro abilità nel convincerci che le loro affermazioni sono il risultato di una profonda immersione in un'altra forma di vita, o del fatto di essersi realmente recati sul posto. Che cosa intende dire con questo?
Gli antropologi che hanno avuto maggiore influenza in anni recenti - ma anche in passato - sono stati quelli che ci hanno dimostrato di essersi immersi totalmente nelle società che studiavano; quelli che ci hanno dimostrato che se ci fossimo trovati lì, anche noi saremmo giunti alle stesse conclusioni, avremmo visto le cose allo stesso modo. Prendiamo ad esempio il libro su Highland Burma di Edmund Leach: durante la guerra in Birmania, in cui si trovò coinvolto, perse tutti gli appunti presi sul campo; quell'opera, però, resta fra le più autorevoli, perché leggendola si ha la sensazione che egli conosca a fondo quel paese, che ne conosca la struttura sociale e, sebbene nel libro sia costretto a seguire un approccio piuttosto schematico, riesce perfettamente nel suo tentativo di comunicarci tutta l'esperienza accumulata nel periodo passato in Birmania. Al contrario, esistono antropologi come Oscar Lewis, le cui opere, pur essendo ricchissime di dettagli di ogni genere, non riescono a comunicare la sensazione che egli conosca a fondo la realtà del luogo, e questo perché non vi è mai vissuto. Prendiamo invece l'antropologo inglese Meyer Fortes che ha studiato i Tolensi - che sono una tribù, o un'area tribale (un gruppo di tribù legate fra loro) nella zona settentrionale del Ghana: egli vi è vissuto così a lungo che, leggendo ciò che ha scritto, si ha la sensazione che conosca quel popolo davvero a fondo ed è proprio su questo che si basa la sua autorità, e non su semplici fatti isolati, che il lettore non sarà mai in grado di verificare. Certo, mettendo insieme una serie di fatti isolati, il lettore potrà rendersi conto se il tutto abbia senso o meno, ma, non essendo mai stato sul campo, egli non ha nient'altro su cui basarsi e, comunque, l'esperto resta sempre l'antropologo. Il risultato è però che si creano delle riserve sul fatto che l'antropologo sia davvero esperto sull'argomento. Negli Stati Uniti il lavoro di Fred Eggan sugli indiani pueblos dell'area sud-occidentale dava la stessa impressione: Eggan dimostra di conoscere quella gente veramente bene, perché ha passato con loro la maggior parte della sua vita. C'è stato un altro cambiamento nell'antropologia - che si accompagna a quello di cui si parlava riguardo agli abitanti delle isole e alla questione delle tribù - ed è questo: l'illusione di potersela cavare con brevi viaggi ‘andata e ritorno’ e di mettere tutto per iscritto una volta tornati a casa è svanita. Sono sempre di più gli studiosi che passano sul posto tutta la loro vita, o almeno venti o trent'anni della loro vita. Eggan ne è un ottimo esempio e anche Fortes lo era, ma ce ne sono molti altri. Il lavoro di Turner sui Dembu dell'Africa orientale era frutto di un lungo studio e, io stesso, se mi è consentito, ho passato quarant'anni a occuparmi di Giava, dell'Indonesia e del Marocco. Questo tipo di lavoro è molto più frequente, rispetto al viaggio unico in un determinato luogo, in seguito al quale si sistemano in fretta gli appunti e si scrive il libro. Si tratta, piuttosto, di una creazione continua, di una costruzione lenta, di modo che alla fine, per quanto si possa non essere d'accordo con tutto quello che gli studiosi affermano, si ha la sensazione che essi sappiano bene di cosa parlano, e non certo perché hanno passato un brevissimo periodo della loro vita presso una tale popolazione.
3. Professor Geertz, nel Suo libro Opere e vite, Lei ha parlato di due tipi diversi di preoccupazioni che dividono oggi gli antropologi. Da una parte c'è il timore, proprio dello scienziato, di non essere sufficientemente distaccato; dall'altra, però, c'è il timore dell'umanista di esserlo troppo. Lei crede che la differenza fra scienziato e umanista esaurisca la divisione principale all'interno dell'antropologia contemporanea, o ritiene che siano necessarie altre distinzioni?
Non credo affatto che questa differenza sia sufficiente, e il mio scopo principale, nel testo che Lei ha citato, era proprio di indicare tale ambiguità. La vecchia concezione dell'antropologia la considerava alla stregua di una scienza naturale e, di conseguenza, gli studiosi di tale disciplina dovevano mantenere un certo distacco dall'oggetto di studio. D'altro canto, è evidente - e lo è sempre stato - che non si può capire la gente senza interagire con essa dal punto di vista umano. Ora, non credo che lo schema che ne deriva debba essere necessariamente "scienze naturali contro scienze umane", anche se senza dubbio si tratta di una preoccupazione diffusa. Esistono certamente molte altre posizioni, anche contrastanti, al riguardo, ma in questo caso il mio interesse è quello di segnalare un aspetto che negli anni è diventato sempre più acuto: la sensazione di essere talmente obiettivo nei confronti delle persone al punto da arrivare a trattarle come oggetti e non essere poi in grado, di conseguenza, di comprendere in maniera adeguata le loro emozioni, i sentimenti, le attitudini e persino la loro visione del mondo. Allo stesso tempo è anche vero che gli antropologi cercano di non essere esclusivamente soggettivi: non vogliono comunicare solo la loro impressione, o l'idea che si sono fatti su ciò che hanno visto; non vogliono cioè parlare di mere intuizioni. C'è, quindi - e diventa sempre più seria - una certa preoccupazione su entrambi i punti. Ma buona parte del problema sta nel fatto che l'antropologia non possiede una forte tradizione teorica autonoma. Certo, le teorie esistono, come esistono alcuni studiosi che si occupano solo di teoria, ma ciò non è sufficiente. Il fatto è che si tratta di un campo molto difficile da definire e, di conseguenza, è caratterizzato da una serie di preoccupazioni che riguardano l'immagine che l'antropologia ha di sé, la sua natura stessa, in che cosa essa consista realmente. Una delle domande che gli antropologi si sono posti da sempre è la seguente: che differenza c'è fra antropologia e sociologia? E' una domanda cui non hanno trovato risposta, a parte forse che l'antropologia è migliore, ma certo non sono andati oltre. Alla base di tutto, c'è proprio la visione che l'antropologia ha di se stessa, e c'è il fatto di voler decidere che cosa stiamo tentando di fare realmente. E' proprio su questo punto che esiste una certa diversità di vedute. Non c'è una teoria suprema, né un metodo generale: c'è il metodo empirico, quello usato sul campo, ma in fondo non significa nulla, perché alcuni eseguono lo studio in modo più oggettivo possibile, limitandosi a prendere nota di tutto quello che vedono, mentre altri svolgono lunghe e approfondite interviste: sempre di antropologia si tratta. Per questo oggi si cerca da più parti di circoscrivere la cosa attraverso una specie di definizione ideologica di questa disciplina; si assiste quasi a uno scontro fra coloro che hanno concezioni diverse su quello che facciamo e quello che invece dovremmo fare. Secondo me, la distinzione fondamentale va fatta fra coloro che insistono per una teoria generale della società, da cui poi trarre conseguenze pratiche da applicare a casi specifici, e coloro - fra cui sono anch'io - che desiderano comprendere società diverse per poter interagire con esse in modo intelligente negli anni a venire. Credo che questa sia una differenza molto più profonda - che tende ad esprimersi nel modello di impegno o disimpegno - rispetto a quella tra scienza naturale e scienza umana, o a un'altra analoga.
4. Come Lei stesso ha scritto, se da una parte è chiaro quello che l'antropologia non è - e cioè una scienza attraverso cui i fatti strani e irregolari vengono inseriti in categorie familiari e ordinate - meno chiaro è, invece, in cosa essa consista realmente. Nel tentativo di dare risposta a questa seconda domanda - che cos'è oggi l'antropologia - Lei ha sollevato il problema dell'antropologo come autore e, più precisamente, ha sollevato due domande precise: come si manifesta la funzione dell'autore nel testo? E ancora: di che cosa è esattamente autore l'autore di un testo? Può spiegarci il significato di queste due domande? Perché le ritiene importanti per la ridefinizione della natura degli scritti di antropologia?
A dire il vero, fino a poco tempo fa si trovava raramente una tale autoconsapevolezza negli scritti di antropologia. Quest’ultima era considerata, molto semplicemente, una "finestra sul mondo", attraverso la quale osservare e descrivere. Forse è il caso di spiegare com'è nato il libro di cui stiamo parlando. Avevo tenuto un seminario a New York su Tristi Tropici di Claude Lévi-Strauss, un seminario che sarebbe poi diventato il fulcro dell'ultimo capitolo del libro. Qualche tempo fa, in Gran Bretagna, mi è stato chiesto di tenere un discorso al Royal Anthropological Institute di Londra e, in quell'occasione, ho dato dell'argomento una versione diversa: ho parlato di come lo stile di Lévi-Strauss in qualche modo influenzasse quello che egli aveva da dire. E con un autore come lui il fenomeno è piuttosto evidente. La risposta del pubblico è stata in parte positiva, in quanto si è apprezzato il discorso, ma ho notato anche un atteggiamento di questo tipo: "SÌ, ma i francesi sono fatti così, sono molto elaborati; si divertono a fare i ricercati. A noi inglesi, invece, piace dire le cose come stanno". Così, una volta tornato a casa, ho deciso che avrei dimostrato come il più grande antropologo inglese, il più rappresentativo, Evans-Pritchard, fosse uno scrittore molto più capace di quanto si pensasse. Così ho iniziato a scrivere sull'argomento e gradualmente ho sviluppato i vari capitoli, anche se il tutto è nato da una mia reazione all'affermazione secondo cui il modo di scrivere avrebbe pochissimo significato, sarebbe solo una decorazione. Nel caso specifico di Lèvi-Strauss, si sarebbe trattato solo di un francese che si era abbandonato a una debolezza nazionale. Ma ero intenzionato a dimostrare che ogni testo antropologico è frutto di una costruzione, che il modo in cui è costruito fa un'enorme differenza e che dietro ad ogni opera c'è un autore. Questo approccio è molto diverso da quello tradizionale, che considera fondamentale il lavoro sul campo: ci si reca in loco, si osserva, poi si torna a casa e si mette tutto per iscritto; l'importante è essere precisi e ordinati, il resto non conta; basta coprire tutto, non tralasciare nulla, disporre i fatti in una sequenza ordinata e dare al risultato uno dei titoli tipici da monografia. Ma in realtà, se si dà uno sguardo generale all'antropologia, o per lo meno alle opere antropologiche più importanti, questa visione non regge. E' proprio questo che ho cercato di dimostrare nel libro, e cioè che gli antropologi sono innanzi tutto degli autori. Oggi, un numero sempre maggiore di persone si rende conto di questo - certo ciò avveniva anche in passato, ma si tratta di un fenomeno soprattutto degli ultimi anni - ma è ancora una minoranza rispetto a quelli che rimangono legati alla visione tradizionale. Il primo passo, quindi, è stato quello di far capire che i libri di antropologia non si scrivono da soli, che c’è qualcuno che li scrive e, di conseguenza, che ci sono modi diversi di scriverli. C’è poi la seconda domanda: che cosa scrivono esattamente? A questo proposito mi sono rivolto alla critica letteraria per trovare dei collegamenti, cercando di utilizzare Michel Foucault e Roland Barthes, allo scopo di distinguere fra coloro che sono autori di metodi, che hanno ideato modi diversi di scrivere - come Malinowski, Radcliffe-Brown, Boas e, ancora, Foucault - e coloro che, invece, si limitano a scrivere senza pretese innovative. Con questo non voglio dire che coloro che hanno dato inizio alle varie tradizioni stilistiche in campo antropologico siano migliori di coloro che invece si limitano a svolgere il loro lavoro in quell'ambito. Anzi, il migliore scrittore malinowskiano è probabilmente Firth, e non Malinowski: Firth infatti ha realizzato gli obiettivi di Malinowski meglio di quest'ultimo. E ancora Meyer Fortis ha realizzato meglio di Radcliffe-Brown lo stile discorsivo introdotto da quest'ultimo. La distinzione che si deve fare è dunque quella fra creatori di un testo, di un'opera specifica, e creatori di una tradizione, o di uno stile. E con questo seguo una distinzione che è stata fatta nella critica letteraria e sociale francese.
5. Perché la questione dell'antropologo come autore è tanto importante per ridefinire la natura dell'indagine antropologica?
Tale questione ha in parte a che fare con il mio interesse per l'interpretazione e l'ermeneutica: dietro ogni interpretazione c'è sempre qualcuno che interpreta. Io volevo allontanarmi dal tentativo di nascondere questa persona dietro un'autorità astratta, dall'idea che noi siamo gli studiosi e loro l'oggetto di studio, visto che, date le condizioni di lavoro attuali, ciò non è più possibile. Volevo, invece, affermare che ognuno di noi parla con la propria voce, che non è infallibile ma esprime opinioni alle quali è possibile controbattere. Di conseguenza, usando un linguaggio personale volevo, in sostanza, aumentare il peso dell'autore e chiarire una volta per tutte che non è solo opera della natura. Al giorno d'oggi, nel pensiero postmoderno (o almeno in parte di esso) assistiamo a un ulteriore sviluppo - secondo me, piuttosto spiacevole - che consiste nel tentativo di coinvolgere gli indigeni, le popolazioni che si studiano, nel ruolo di co-autori. Penso che, dopo tutto quello che hanno subito da noi, farli diventare anche autori dei nostri libri sia davvero troppo. Riassumendo, è opportuno sottolineare il fatto che questi libri sono stati scritti da qualcuno, riportano le opinioni di qualcuno su un determinato argomento e, proprio in quanto riportano opinioni, possono essere discussi. Esserne l'autore, dunque, non significa più riportarsi a un atteggiamento obiettivo: non si tratta di descrivere le cose in modo impersonale, distaccato e neutrale, sia dal punto di vista morale che interpretativo, o concettuale; al contrario, si tratta di esprimere opinioni molto sentite - e, almeno per quanto riguarda i grandi antropologi, è sempre stato così. Per potersi accingere a riflettere su questa disciplina è così opportuno chiarire in primo luogo questo punto. Certo, bisognerà ancora riflettere sul lavoro sul campo, sul modo migliore di svolgerlo, su come raccogliere informazioni, ma bisognerà soprattutto riflettere su come costruire il testo e su come affermare le proprie opinioni in modo che si intuisca la presenza di una persona che le afferma, così da rendersi conto che tutti i testi portano una firma.
A questo proposito ho analizzato Tristi Tropici di Claude Lévi-Strauss e ho cercato di dimostrare che in quell'occasione l'autore, più o meno intenzionalmente (a mio avviso pienamente, anche se non ho modo di provarlo), si muoveva allo stesso tempo in più direzioni: svolgeva innanzitutto il lavoro dell’etnografo, iniziando a parlare delle tribù dell'Amazzonia di cui si stava occupando; in secondo luogo, scriveva un diario di viaggio (sebbene in principio egli lo neghi, è proprio ciò che fa: scrive un racconto di viaggio, con un inizio - in Francia - e una fine); inoltre, componeva un'opera filosofica basata su Rousseau e i fondamenti della società naturale che sperava di trovare in Amazzonia; infine, dava il via allo strutturalismo, soprattutto nei capitoli in cui parla del sacrificio; egli iniziava cioè a sviluppare l'analisi strutturale, e non solo quella. Soprattutto, egli ha tentato di creare un "mito della ricerca". Anche se il libro si colloca nella fase centrale della sua opera, io lo ritengo basilare per tutto il suo lavoro, passato e futuro. Lévi-Strauss lascia infatti la Francia poco prima dell'inizio della guerra per andare a Rio de Janeiro: i Tropici, come egli stesso afferma, sono fuori moda, e così si addentra nella giungla, in una sorta di complesso di immagini antropologiche tradizionali, e più la percorre, più le cose gli paiono difficili da capire: si tratta quindi del mito di una ricerca, la ricerca della comprensione. Quando, infine, arriva al traguardo, egli si trova di fronte un gruppo la cui lingua gli è sconosciuta e che non è stato mai avvicinato, né studiato in precedenza; è allora che si accorge di non riuscire a comprendere quelle persone, si accorge che esse sono completamente diverse da lui. Si tratta dunque di un tipo di ricerca che, invece di portare a una fonte preziosa di conoscenza nuova, sfocia in un'aporia, in una situazione di stallo, in una specie di sconfitta. Naturalmente è una bellissima storia, che rappresenta però una sconfitta per quanto riguarda la comprensione. Si osserva, qui, proprio questo risvolto del mito della ricerca, che ha contribuito in larga parte a renderlo tanto affascinante: la questione dell'altro - della comprensione dell'altro, per cui più l'altro è diverso, più ci interessa e meno riusciamo a comprenderlo - e di come mediare il tutto rappresenta in parte il nocciolo del problema. Vi sono poi tutti gli altri strati di testo di cui si parlava, ed è come se fossero accumulati uno sull'altro a formare una specie di matrice da cui si dipartono l'opera filosofica, quella mitologica, il racconto di viaggio (buona parte del libro è dedicata alla descrizione di quanto fossero faticosi viaggi così lunghi e altre dettagli del genere) e, infine, l'inizio dell'analisi strutturale e dell'etnografia. Tutto questo è racchiuso in un unico libro che, in un certo senso, si sviluppa negli altri testi più specifici, scritti da Lévi-Strauss prima e dopo.
6. Professor Geertz, soffermiamoci ora sugli altri tre grandi antropologi di cui Lei si è occupato: prendiamo, ad esempio, Evans-Pritchard: Lei lo ha descritto come un etnografo amante dell'avventura, impegnato a spiegare le società tribali, a renderle chiare e visibili come il ramo di un albero o un acquisto di bestiame; dunque, un atteggiamento molto diverso da quello di Lévi-Strauss. Ce ne vuol parlare?
In effetti, volevo allontanarmi dal concetto astratto dell'"antropologo", perché sono convinto che quella figura in fondo non esista. Per questo motivo ho portato ad esempio dei veri antropologi: un francese e un britannico; poi Malinowski, che era polacco, ma si era trasferito in Inghilterra e aveva lavorato anche negli Stati Uniti e, infine, un americano. Ho fatto questo proprio allo scopo di comunicare l'idea che gli antropologi sono diversi fra loro e scrivono in modo diverso. Naturalmente, come ho affermato in Inghilterra - in occasione del seminario che mi ha ispirato il progetto - il contrasto fra Evans-Pritchard e Lévi-Strauss è molto forte; infatti, mentre Lévi-Strauss cerca di rendere le cose misteriose, complesse e intricate, Evans-Pritchard ha una vera passione per la chiarezza, la lucidità, per mostrare le cose in piena luce e descriverle con uno stile frizzante. Ho definito il suo I Nuer un libro di geometria antropologica, proprio perché è pieno di schemi e di diagrammi - che servono a rendere più chiaro il tutto - ma anche di splendide fotografie. Secondo la sua visione, egli non cerca di assimilare gli altri alla cultura britannica, ma fa in modo di mostrarli, di renderli comprensibili alla cultura britannica, o occidentale in genere; vuole vederli come una popolazione che possiede un proprio peso e un proprio spazio. Egli vuole vederli così e vuole descriverli così, ed è in questo modo che cerca di renderli vividamente davanti ai nostri occhi: non cerca di dimostrare che sono uguali a noi in tutto e per tutto, ma che lo sono negli aspetti fondamentali, che provano le nostre stesse passioni, anche se esse si manifestano in modo differente in paesi diversi. Egli ci spiega, ad esempio, che il coraggio e la codardia esistono ovunque, ma le forme che questi due sentimenti prendono differiscono in base al popolo e al luogo. Invece di rendere tutto vago e misterioso, Evans-Pritchard cerca quindi di essere il più chiaro possibile, allo scopo di trasmettere a noi - ma soprattutto alla società inglese del suo tempo - l'impressione che siamo in grado di comprendere culture diverse. In contrasto con la visione di Lévi-Strauss, che finisce col non comprendere (quando finalmente raggiunge quelle persone non riesce a capirle), Evans-Pritchard vuole rassicurarci sul fatto che le nostre categorie di pensiero - pur essendo diverse da quelle degli altri popoli - sono perfettamente capaci di accoglierli e di inserirli in un quadro coerente. Si tratta pertanto di due visioni quasi antitetiche - anche se non del tutto, dato che anche in Lévi-Strauss c'è il desiderio di comprenderli; i due approcci sono comunque profondamente diversi, proprio come è diverso lo stile: le loro descrizioni fanno parte della realtà che cercano di illustrare. In Evans-Pritchard c'è un forte senso di chiarezza, come se da una finestra aperta sul mondo si guardasse alle cose direttamente, senza complicazioni, e si cercasse di rendere tutto il più netto e chiaro possibile. E’ evidente dunque che nessuno dei due metodi è del tutto puro.
Certamente, Malinowski tentava di arrivare alla realtà, e il suo è un metodo che coinvolge il lettore nel testo molto più di quanto accada con Lévi-Strauss o Evans-Pritchard. Sia l'uno che l'altro, anche se in modi diversi, si trovano infatti fuori del testo. In realtà, Lévi-Strauss, in Tristi Tropici, è nel testo, ma non come persona: egli è solo un narratore che ci guida attraverso il testo. Evans-Pritchard, invece, non è mai presente nel testo, tranne forse occasionalmente nelle prefazioni. Malinowski, al contrario, descrive le reazioni e le sensazioni che prova, in particolare nel suo diario, ma anche altrove. Ancora una volta ci troviamo di fronte al fondatore di un nuovo modo di scrivere, oltre che ad un autore. Egli ha dato inizio a tutta una tradizione che vede il problema centrale nella capacità dell'antropologo di reagire di fronte a una cultura diversa; ciò che importa non è più l'approccio mitologico, filosofico o descrittivo, ma le reazioni personali che si hanno una volta in contatto con quella gente. Nell'antropologia moderna, ciò ha favorito la tendenza a parlare di quello che è stato definito l'"osservatore situato" o l'osservatore per così dire "in sito", cioè la persona che si trova sul posto e lo studia, colui che proviene da una determinata cultura e si trasferisce in un luogo diverso per cercare di capirlo. Tutto questo ha avuto conseguenze sia positive che negative. E' successo, ad esempio, che alcuni si sono occupati troppo di se stessi e delle proprie sensazioni, trascurando la gente con cui vivevano. D'altro canto, ci sono stati altri - sempre più numerosi - che hanno tentato di dimostrare come l'aspetto più importante sia proprio la presenza dell'antropologo e la sua interazione con la gente del luogo. Descrivere un popolo, o una zona, o qualsiasi altra cosa, senza descrivere anche il proprio ruolo al suo interno, significa fornirne un quadro distorto, perché l'antropologo è lì, vive con le persone ed è un osservatore che partecipa alla vita sociale. Quello che cerco di fare nel libro che sto scrivendo in questo momento - e un numero sempre crescente di noi cerca di fare lo stesso - è rappresentare me stesso nel testo, cercando di spiegare quello che faccio. Credo sia stato proprio Malinowski a dare inizio a questa tendenza. E' in un certo senso come avere una videocamera: noi sappiamo che qualcuno gira il film, ed è proprio quella la sensazione che si dovrebbe cercare di ricreare. Ora, trovare il modo migliore per farlo è una faccenda piuttosto complicata: non basta mettersi dietro a una videocamera, come non basta infilarsi nel testo che si sta scrivendo. E' necessario far capire che si è coinvolti in un'interazione, e proprio questa è la sensazione che cerco di trasmettere nel mio libro. Oltre a me, altri hanno tentato di fare lo stesso, e alcuni con maggior successo di altri: il punto è riuscire a rappresentare la propria relazione con quella gente e, allo stesso tempo, porsene al di fuori. E' una questione molto complicata, perché si deve evitare di cadere nell'autobiografia, o nella riflessione personale, o in qualsiasi altra forma di narcisismo, ma allo stesso tempo si deve rientrare nel quadro, perché si era realmente nel quadro. Gli antropologi non si limitano ad andare in giro a distribuire questionari: essi vivono in mezzo alla gente. Io ho vissuto due anni e mezzo alla periferia di un villaggio, a Giava, insieme a un operaio delle ferrovie. Non posso descrivere questo fatto come se mi fossi trovato in un altro posto e mi fossi limitato a osservare la scena dall'esterno: io ero l" e, secondo me, è proprio questo il punto. L'iniziatore di questa tendenza, torno a dire, è stato senz'altro Malinowski, e ancora oggi questo rimane un approccio assai complesso. Alcuni tentativi in questo senso si sono rivelati davvero disastrosi, ma altri sono riusciti e sono sempre di più gli studiosi che scelgono di percorrere questa strada. Bisogna osservare che una visione di questo genere non si adatta a qualsiasi tipo di lavoro, e anzi, in certi casi non funziona affatto. Comunque, il contributo di Malinowski è consistito principalmente nel sottolineare il fatto che non è una macchina ad osservare le persone, ma un essere umano, lo stesso essere umano che poi, eventualmente, scrive dei libri.
7. Certamente, il compito di cui Lei parla sembra molto difficile, soprattutto perché non è facile indicare, o formulare, regole generali sul modo migliore per descrivere gli altri, tenendo sempre presente che si è in qualche modo una parte della descrizione. È corretto esprimersi in questi termini?
Direi senz’altro che le cose stanno così, e di conseguenza si è avuta una certa diversificazione nel modo di scrivere testi di antropologia. Nella forma monografica tradizionale era molto difficile, anzi impossibile, per l'autore entrare a far parte del testo, semplicemente perché ciò non era previsto. Se si pensa, però, a opere come Tristi Tropici e al lavoro di Malinowski (soprattutto al diario, ma anche ad altri scritti) ci si rende conto che quelle opere non rientrano nella struttura tradizionale. Evans-Pritchard è ancora vicino alla monografia tradizionale, anche se in modo un po' diverso. Ci sono, dunque, sempre più tentativi di allontanarsi dal semplice realismo etnografico e dal classico approccio monografico e di avvicinare invece altri modelli di scrittura, che non devono necessariamente essere strani, complessi, o altamente sperimentali, ma devono suggerire modi migliori di costruire un testo. Ecco perché la questione dell'autore è tanto importante: non si può semplicemente realizzare tutto questo senza una lunga riflessione. Oggi, c'è molto più interesse per la forma del saggio, per gli esperimenti del tipo di Tristi Tropici, per metodi diversi, per definire il rapporto fra gli appunti presi sul campo e il modo inserirli nel testo. In sostanza, stiamo arrivando ad avere una grande varietà di libri di antropologia, che non sono più standardizzati come lo erano, ad esempio, quarant'anni fa.
Oggi, ad esempio, l'antropologia sta assumendo sempre più una funzione di critica sociale. Di tutti gli antropologi di cui mi sono occupato, Benedict è forse la più controversa. Gli altri sono classici in senso semplicemente empirico; se io chiedessi a chiunque di farmi i nomi dei dieci antropologi più importanti degli ultimi cinquant'anni, Malinowski, Evans-Pritchard e Lévi-Strauss sarebbero sicuramente inclusi nella lista. Benedict, invece, sembra dividere le persone fra coloro che ritengono le sue opere un'inutile perdita di tempo e coloro che, al contrario, le trovano straordinarie. Personalmente, apprezzo molto il suo lavoro. La funzione di critica sociale da lei svolta è stata particolarmente utile, soprattutto se si pensa al periodo in cui è vissuta. Al tempo in cui Benedict scriveva eravamo in guerra con il Giappone, e tutto quello che ella ha scritto sul Giappone, lo ha scritto negli Stati Uniti, senza mai visitare quel paese. Quello che ha scritto ella lo ha tratto da libri, film, interviste a prigionieri di guerra e via dicendo, ma non si è mai recata sul luogo - e come poteva, se eravamo in guerra? Lei, dunque, non era un’antropologa che lavorava sul campo, (fra l'altro era sorda, anche se non completamente). Benedict ha lavorato brevemente sul campo tra gli Zuni e in Tibet, ma si trattava di studi sui canti popolari. L'osservazione partecipe tipica di Malinowski non faceva per lei; non credo fosse il genere di persona che interagisce con molta facilità o, almeno, non lo ha mai fatto. Ad ogni modo, come si diceva, ella non era mai stata in Giappone e, nel bel mezzo di una guerra, cercava di descrivere questo paese sotto una luce che non fosse del tutto negativa: anzi, procedendo nel libro, i giapponesi diventano sempre più simpatici, mentre gli americani lo diventano sempre meno. Scrivendo il libro, quindi, lei assume una veste di critico. Benedict inizia infatti la sua opera affermando che i giapponesi sono il popolo più diverso e più strano contro cui gli Stati Uniti abbiano mai combattuto, ma finisce col mostrare che la stranezza è invece propria degli americani. Io la paragono a Jonathan Swift che, ne I viaggi di Gulliver, si serve di popoli diversi per farvi rispecchiare le nostre manie. Ritengo che Benedict faccia esattamente lo stesso - e oggi c'è una tendenza a farlo sempre di più - cercando di usare le differenze fra noi e le altre popolazioni come strumento di critica alla nostra società, come occasione per riflettere su di essa e per ricondurre lo studio antropologico alla nostra società. Si tratta comunque di una questione molto controversa, perché lei è una scrittrice controversa come lo sono le sue opere. Soprattutto ora che ci troviamo di fronte i giapponesi in modo diverso, pur essendoci ancora il problema della differenza fra noi e loro, appare importante riesaminare tale differenza nel senso indicato da Benedict, dicendo cioè che non sono loro a essere diversi da noi, almeno non più di quanto lo siamo noi da loro, e cercando di pensare le somiglianze e le differenze in modo che queste possano gettar luce le une sulle altre, e non di usarle al solo scopo di affermare una visione caratterizzata da un senso di superiorità, o di egocentrismo. Ritengo che affermare una visione del genere nel bel mezzo di una guerra come quella combattuta contro il Giappone, quando negli Stati Uniti i sentimenti nutriti verso quel paese seguivano uno stereotipo ed erano stupidi e antagonistici, sia stato un atto di grande coraggio ed eroismo, e sarebbe utile che anche noi seguissimo almeno in parte la stessa impostazione. Alcuni già lo fanno, e non solo con il Giappone, ma anche con altre culture. Io stesso, lavorando in Marocco e in Indonesia, ho cercato di mediare le differenze in modo da dimostrare che non è che quei popoli siano strani, o esotici, e noi pieni di buon senso, ma che le differenze che vediamo recandoci in quei paesi devono rappresentare una critica al modo in cui noi facciamo le cose, o consideriamo noi stessi, e così via. Sono sempre di più gli studiosi che si muovono in questo senso, che usano la prospettiva degli altri su noi stessi in modo da criticare i nostri pregiudizi, che non sono più validi quando ci rapportiamo agli altri.
8. Uno dei più importanti aspetti educativi della "buona antropologia" è quello di allontanarsi da una visione troppo centrata su se stessi e di avvicinarsi, invece, a una visione più globale, più orientata verso gli altri. Credo che questo sia un contributo importante sia dal punto di vista intellettuale e culturale che da quello morale e politico, perché, comunque lo si intenda, esso cancella il concetto di unicità, l'idea che noi siamo unici.
Questo ci riporta a quanto affermato prima su come sono cambiati i popoli che studiavamo. Fra di loro ci sono sempre più antropologi e, quindi, ora ci troviamo su una strada a doppio senso: non siamo più solo noi che descriviamo loro, e il Giappone costituisce un ottimo esempio. Oggi, molti fra i maggiori antropologi americani sono di origine giapponese, ma non solo: oggi leggiamo anche importanti opere di antropologi giapponesi. Si è instaurato insomma un dialogo e le cose non potranno più essere come prima, non ci sarà più un modello coloniale del tipo "noi studiamo loro" perché non è più possibile. Qualche giorno fa, in una università dello stato di New York, ho tenuto un discorso a proposito del mio lavoro in Marocco e Indonesia: uno studente coreano si è alzato e ha sottolineato il fatto che, in passato, la cultura coreana era stata studiata e descritta dai missionari, senza che i coreani avessero modo di partecipare a quella descrizione. Oggi questo non succede più, perché gli antropologi coreani hanno la possibilità di controbattere. Non che noi non abbiamo più voce in capitolo, ma ora ce l'hanno anche loro; il tutto si è trasformato in una specie di conversazione e, come si è osservato, ciò ci permette di spostare il centro della prospettiva da noi a loro. E' questo, a mio avviso, uno dei più grandi privilegi dell'antropologia e una delle sue maggiori virtù, cioè quella di potersi allargare ben oltre i limiti della cultura occidentale. E' vero, l'antropologia è nata in occidente, ed è quindi una creazione del pensiero occidentale - soprattutto di quello europeo del periodo romantico - ma ormai è diventata un bene di tutta l'umanità. Di conseguenza, ci stiamo sempre più avvicinando a una concezione dell'antropologia come scambio, appunto come dialogo.
Vero è anche che instaurare un dialogo con le popolazioni indigene sta diventando sempre più difficile. Oggi, quando ci si reca in un paese - mi riferisco alle società complesse come l'Indonesia o il Marocco, che oggi sono nazioni indipendenti - è necessario negoziare con la popolazione prima di poterla studiare, e in passato questo non succedeva. E' cioè necessario convincerla a lasciarsi osservare; di solito, poi, c'è anche un'accademia, o un centro di studi locale con cui confrontarsi. Di conseguenza, non basta più infilarsi il casco coloniale e partire. Deve aver luogo, invece, una cooperazione, non si può più agire su basi unilaterali, non ci sono più idee del tipo: noi abbiamo il potere e voi no, perché quella gente ormai ha il potere di controllare il proprio destino. In questo senso, lavorare in alcuni paesi sta diventando sempre più difficile per gli antropologi, proprio a causa di questo problema. L'introduzione della scrittura e della concettualizzazione nell'antropologia - in modo da non avere il modello "finestra aperta" di cui si parlava prima - genera un'ansia di natura epistemologica: come posso essere sicuro che quello che ho descritto è esatto? E' una paura molto diffusa. Se Evans-Pritchard, Malinowski, Benedict, Levi-Strauss o chiunque altro, hanno avuto visioni diverse, o diversi approcci - proprio come gli antropologi contemporanei - come possiamo scegliere fra tante diverse descrizioni? Come possiamo scegliere fra quello che Geertz afferma sull'Indonesia e quello che, invece, afferma un altro antropologo, che vede le cose in modo diverso, e che così si rapporta al loro stile e al loro lavoro? Sorgono tutta una serie di dubbi. Quando si pensava che fossimo solo scienziati che descrivono oggetti in modo neutrale, senza pregiudizi o modelli di alcun tipo, da una posizione di semplice osservatore esterno, invece che di osservatore partecipe, si riusciva a essere più sicuri di sé. L'antropologia contemporanea, invece, offre meno sicurezze e questo, secondo me, non può che andare a suo vantaggio. Non si possono più scrivere il genere di libri che io stesso scrivevo all'inizio della mia carriera. Tutto è diventato molto più complesso, ci sono più dubbi, più autocritica e si è molto più insicuri riguardo alla testualizzazione del proprio lavoro in qualità di osservatore situato. Per tornare al libro che sto scrivendo, in esso ho posto l'attenzione sul fatto che la maggior parte del mio lavoro è stato svolto durante la guerra fredda, in due paesi con cui gli Stati Uniti intrattenevano legami di ogni tipo. Come si sa, in Indonesia c'è stata la guerra civile anticomunista, con i terribili massacri che questa ha portato, e via dicendo. Io lavoravo in un paese in cui i tre quarti della popolazione era comunista e per un americano, in una situazione del genere, non si può certo parlare di neutralità; quanto meno si tratta di una situazione del tutto nuova che non può che minare la sicurezza che si ha riguardo alla propria autorità in campo antropologico. Succede allora che la maggior parte degli studiosi passa il proprio tempo a pensare a queste cose invece che a lavorare, e questo mi preoccupa, come preoccupa anche altri studiosi: l'idea di passare il tempo a pensare a se stessi e al proprio lavoro, trascurando invece la gente di cui ci si dovrebbe occupare. Credo che questo sia un pericolo reale, per cui è necessario trovare una soluzione intermedia: bisogna avere abbastanza fiducia in se stessi da affermare qualcosa, ma non tanta fiducia da pensare che la propria idea sia inconfutabile e che non ci sia altro da dire in proposito. Al momento, dunque, l'antropologia è divisa - e secondo me questo è un bene - fra un crescente senso di incertezza nei confronti del proprio ruolo, da una parte, e la volontà di svolgerlo comunque e di cercare di capirlo meglio proprio attraverso tutti questi problemi, dall'altra. Ritengo comunque che quest'ultima sia l'unica strada percorribile, e del resto è anche quella che gli antropologi più autorevoli e interessanti hanno scelto di seguire.
Clifford Geertz incomincia coll'individuare il cambiamento di prospettiva intervenuto nell'antropologia contemporanea, che ha spostato l'attenzione dalle isole sperdute alle società complesse, per comprendere le quali sono necessarie altre discipline e nuovi metodi, oltre agli studi prodotti dagli appartenenti alle società oggetto di indagine (1). . Le opere più riuscite sono quelle che comunicano la sensazione di potersi immergere nelle società presentate, come avviene negli studi di Leach, Fortis e Egin, che vissero a lungo con le popolazioni studiate (2). L'antropologia è un campo di assai difficile definizione, soprattutto se la si vuole etichettare secondo l'alternativa: scienze naturali o scienze umane; non c'è una base teorica solida che la distingua, per esempio, dalla sociologia; la distinzione fondamentale sarebbe invece tra lo scopo operativo di una teoria della società e l'intento di comprensione del diverso per una futura interazione (3). Geertz sottolinea l'importanza dell'aspetto creativo della scrittura, riferendosi a Lévi-Strauss e a Evans-Pritchard e distinguendo, sulla base di numerosi esempi, tra gli autori di metodi innovativi e coloro che applicano un certo stile di lavoro (4). L'accentuazione della funzione dell'antropologo come autore che interpreta una cultura esprimendo una propria opinione discutibile, contraddice l'idea di un lavoro che si svolgerebbe in maniera affatto obiettiva. Geertz presenta quindi Tristi Tropici di Lévi-Strauss come un testo a molti livelli in cui si esprime il mito della ricerca e il tentativo di comprensione dell'"altro" (5). Non esiste un modello di antropologo, ma modelli diversi, Geertz presenta a questo proposito la figura di Evans-Pritchard e il suo studio su I Nuer, del tutto antitetico rispetto all'impostazione di Lévi-Strauss. Malinowski è sempre presente nel testo che scrive come un osservatore situato, che reagisce e interagisce con l'altra cultura (6). Attraverso questi vari stili ci si è allontanati dal realismo etnografico della monografia classica, tentando altri modelli di scrittura, come il saggio o il diario. Geertz presenta quindi la figura della Benedict e i suoi studi sul Giappone, con il loro risvolto di critica sociale ai pregiudizi nel contesto di guerra in cui si colloca tale lavoro (7). Ormai esistono molti antropologi giapponesi o di origine giapponese e pertanto si è instaurato un dialogo che ha spostato il centro della prospettiva, facendo dell'antropologia una scienza non solo occidentale, ma un patrimonio di tutta l'umanità. La cooperazione è necessaria anche in seguito alla fine dei rapporti coloniali, per concludere Geertz riflette sull'incertezza che caratterizza l'antropologia contemporanea e sul persistente bisogno di comprendere che la caratterizza (8).
Temi e problemi dell'antropologia contemporanea: intervista con Clifford Geertz (da Maurizio Viroli; Princeton/N.J./USA, May 18, 1992), in: Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche: un'opera delle RAI rediotelevisione Italiana (Roma/ITA: 1992f.), part 1
online source: http://www.emsf.rai.it/interviste/interviste.asp?d=92.
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