Università degli studi di Catania, facultà di Giurisprudenza (ed.): 
Materiali didattici: Clifford Geertz

(online since 2001)


VITA
Clifford Geertz è nato a San Francisco il 23 agosto 1926. Si laurea in filosofia nel 1950 e sostiene la tesi di dottorato in antropologia nel 1956, presso la Harvard University. E' assistente presso il Massachusetts Institute of Technology (1952-58), fellow del Center for Advanced Study in the Behavioral Sciences di Stanford-California (1958-1960), professore associato dell'Università di Chicago (1960-70). Dal l970 insegna Scienze Sociali all'Institute for Advanced Study di Princeton. Ha compiuto numerose ricerche etnologiche sul campo in Indonesia, nelle isole di Java, Bali e Sumatra e nel Marocco. Dal l966 è membro dell'American Academy of Arts and Sciences, dal l972 della American Philosophical Society, dal l973 della National Academy of Sciences e, dal l99l, socio corrispondente della British Academy. Ha ottenuto numerosi riconoscimenti e ha tenuto conferenze e lezioni in molte università nordamericane.

OPERE
The Social Context of Economic Change: an Indonesian Case Study, Cambridge, Center for International Studies, Massachusetts Institute of Technology, 1956; The Development of the Javanese Economy: A Socio-cultural Approach, Cambridge, Center for International Studies, Massachusetts Institute of Technology, 1956; The Religion of Java, Glencoe, Ill., Free Press,1960; Agricoltural Involution, the Processes of Ecological Change in Indonesia, Berkeley, 1963; Peddlers and Princes, Chicago,1963; Person, Time and Conduct in Bali. An Essay in Cultural Analysis, Yale, 1966; Islam Observed: Religious Development in Morocco and Indonesia, New Haven, Yale University Press, 1968; The Interpretation of Cultures, Selected Essays, New York, Basic Books, 1973; Myth, Symbol, and Culture, Essays by Clifford Geertz and others, New York, Norton, 1974; The Social History of an Indonesian Town, Westport, Conn., Greenwood Press, 1975; The Interpretation of Cultures, London, Hutchinson, 1975; Negara: the Theatre State in Nineteenth Century Bali, Princeton University Press, Princeton, N.J., 1980; Local Knowledge: Further Essays in Interpretive Anthropology, Basic Books, New York, 1983; Works and Lives: The Antropologist as Author, Stanford,1988; The Strange Estrangement: Charles Taylor and the Natural Sciences, in The Philosophy of Charles Taylor: Critical Prospective, Cambridge, 1993. Di Clifford Geertz sono tradotti in italiano: Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna, 1987; Antropologia interpretativa, Il Mulino, Bologna, 1988; Antropologia interpretativa, Il Mulino, Bologna, 1988; Opere e vite : l'antropologo come autore, Il Mulino, Bologna, 1990; Oltre i fatti: due paesi, quattro decenni, un antropologo, Il Mulino, Bologna, 1995.

PENSIERO
Nelle sue ricerche etno-antropologiche sul campo Geertz ha studiato comparativamente l'organizzazione sociale di alcune culture asiatiche ed africane e il comportamento religioso e le produzioni mitologiche e simboliche di alcune popolazioni cosiddette "primitive". In particolare ha indagato l'islamismo del Marocco, i riti religiosi a Bali e Java e le trasformazioni economiche dell'Indonesia.
 

(follow passages (cut & regrouped) from the 1992 RAI-interview by Maurizio Viroli, including some explanatory passages inserted in the print version there).

L'Interpretazione delle culture

Professor Geertz, da circa quarant'anni Lei si occupa di interpretazione delle culture. Nel suo saggio, "Blurred Genres", Lei appare convinto che l'antropologo sia un essere anfibio, una creatura a metà tra lo studioso di scienze sociali e l'umanista. Perché l'antropologo non può essere semplicemente l'uno o l'altro?

Non sono mai stato particolarmente entusiasta della netta divisione tra le scienze umanistiche e le scienze propriamente dette, comprese quelle sociali, quasi si trattasse di due vasti continenti da mettere in relazione l'uno con l'altro. Io le vedo piuttosto come isole raccolte in un arcipelago, che debbono essere unite da collegamenti multipli. In ogni caso mi interessa di più riflettere sul genere di lavoro che svolgo, domandandomi non tanto se esso appartenga alle scienze sociali, a quelle umanistiche o alla scienza propriamente detta, quanto piuttosto se e in che modo esso possa servire a migliorare la comprensione dei fenomeni sociali in generale e a rendere le persone più sensibili nei rapporti con gli altri e con se stesse.

Lei vede quindi l'antropologia più vicino al filosofo? Intendendo per filosofo colui che vuole applicare gli strumenti della scelta razionale all'interpretazione delle culture.

Non ho molto da dire sulla teoria della scelta razionale: a mio avviso, i tentativi di costruire dei modelli di scelta razionale eliminano tutte le questioni interessanti ancor prima di cominciare - anche in campi come quello dell'economia, dove forse è più facile utilizzarli. Io tendo a occuparmi di più del retroterra strutturale, sia culturale che sociale, che determina situazioni che si prestano poi a considerazioni sulla scelta razionale. Sebbene io non sia un filosofo, né cerchi di diventarlo, sono stato fortemente influenzato dai filosofi. Non tanto dai filosofi analitici quanto da figure come Wittgenstein, Gadamer e Ricoeur: ovvero dalla corrente ermeneutica del pensiero sociale e filosofico moderno. Ho cercato di applicare queste idee - piuttosto generali - ai problemi di ordine pratico che ho incontrato quando mi applico ad analizzare la vita delle persone. Come è avvenuto nel Sud-Est asiatico e nel Nord Africa, dove ho svolto quasi tutta la mia attività.

Perché il metodo della scelta razionale non è utile nell'interpretazione delle culture e dei fenomeni culturali?

Come ho detto, il problema consiste nel fatto che, per poter mettere a punto un modello di scelta razionale, bisogna sapere quasi tutto quello che l'antropologo cerca di scoprire in primo luogo. Se vado a Bali e vedo le persone fare determinate scelte, applicando determinati modelli di scelta razionale, non sono assolutamente in condizione di comprendere su quali basi le facciano e, una volta che abbia capito quale sia la loro interpretazione di ciò che stanno facendo e cosa significhino i loro simboli, a questo punto il lavoro è praticamente compiuto. E' a questo punto infatti che si possono applicare i modelli di scelta razionale, ma ciò diventa comunque possibile, per lo meno per quanto mi riguarda, soltanto dopo che sia stato fissato l'intero contesto. Una volta fatto questo, le persone risulteranno razionali rispetto alla loro conoscenza di base - ma penso che questa non sia certo una novità. Quello che io cerco di fare è proprio scoprire in cosa consista questa conoscenza di base, in cosa consistano questi taciti accordi.

Lei ha definito il Suo tipo di ricerca antropologica "interpretazione delle culture", e ha scritto: "I fenomeni culturali dovrebbero essere considerati dei sistemi di significato che sollevano delle questioni interpretative". Può spiegarci questo concetto?

Questo concetto - che è proprio del metodo interpretativo o ermeneutico e che per un antropologo è sempre valido - equivale a dire che i fatti con cui si ha a che fare non sono chiari. Non si sa perché le persone agiscano in determinati modi, né quale significato attribuiscano alle loro azioni. L'applicazione di sistemi di significato, come avviene nell'ermeneutica, rappresenta un tentativo di affermare che il nostro compito è soprattutto esplicativo, al fine di scoprire quali sono le intenzioni delle persone. Si ha comunque a disposizione un modello testuale, o un'azione da utilizzare come un'analogia testuale seguendo le ricorrenze. Esso dev'essere compreso per quello che le persone, a livello conscio o inconscio - ma per lo più a livello inconscio - pensano che sia. Il problema quindi è cercare di scoprire non tanto come funzioni una macchina quanto come si debba leggere un testo. Come ho detto è un modello che parte dal concetto secondo cui le cose, quando vengono affrontate per la prima volta, non sono molto chiare, appaiono confuse e indefinite. Quando i balinesi, i marocchini o i giapponesi dicono o fanno qualcosa, non sappiamo da quali motivi siano spinti, cosa ci sia all'origine del loro rituale. Allora si cerca di ridurre il senso di confusione, di mancanza di chiarezza, sforzandosi di capire cosa sta succedendo in termini di significato e di azione simbolica. L'unico modo in cui si può fare questo è quello interpretativo, ascoltando quel che la gente dice, osservando quello che fa e cercando di abbinarlo a una sorta di analogia testuale, come se fosse un gioco o una recita. Se si assiste a una partita di baseball o di calcio, e se non si è americani, nel caso del baseball, o italiani nel caso del calcio, questi sport risultano molto difficili da capire. Per cercare di scoprire come funziona uno di tali giochi, non soltanto si devono scoprire quali sono le regole, ma quali sono i significati e l'importanza di determinati tipi di comportamento: questo, in un certo senso, equivale a leggere la partita come un testo. Questo è ciò che cerco di fare, in senso più generale, per l'antropologia.

Ciò significa che l'antropologo deve cercare di calarsi nel punto di vista delle varie popolazioni e accantonare, almeno temporaneamente, le proprie concezioni del mondo e le abitudini mentali?

Capire cosa essi pensano, sentono e fanno in un dato momento è il vero oggetto dello studio. Perciò devo senz'altro tralasciare le mie idee su come reagirei in una determinata situazione. Per comprendere tutto questo non dispongo però unicamente delle loro spiegazioni coscienti, o addirittura inconsce, degli avvenimenti, poiché sono in grado di introdurre elementi presi altrove che forse possono aiutarmi a leggere questo testo. E' un tentativo di capire quale sia il punto di vista dei partecipanti e di trasferirlo in un contesto più ampio, cosa che loro non farebbero. Perciò bisogna, in un certo senso, fare avanti e indietro, capire le cose dal loro punto di vista e allo stesso tempo collocarle in un contesto logico che non sia necessariamente il loro, altrimenti ci si imbatte in difficoltà insormontabili. Non ci si può, per esempio, limitare a descrivere la stregoneria dal punto di vista delle streghe, e bisogna anche prendere in considerazione altri aspetti.

Professor Geertz potrebbe, per concludere, darci un'esempio del suo lavoro come l'analisi dei combattimenti dei galli a Bali ?

In un certo senso il combattimento dei galli è interessante proprio a causa della sua apparente frivolezza. Quando ero a Bali rimasi colpito dal fatto che, a dispetto di tutta la loro probabile frivolezza e sebbene io non ci trovassi nulla d'interessante - gli incontri sono velocissimi e non c'è praticamente nulla da vedere - i combattimenti dei galli venivano organizzati due o tre volte alla settimana e la gente ne era completamente entusiasta. Così mi misi al lavoro, e osservai innanzi tutto che il combattimento dei galli è accompagnato da scommesse: in particolare, c'è una scommessa centrale tra i due proprietari dei galli. Si tratta di una scommessa ingente, nella quale le due puntate sono sempre identiche (per esempio cinquanta contro cinquanta). Vi sono poi persone che fanno scommesse collaterali e che si scambiano cenni, dando luogo a un notevole trambusto. Queste ultime scommesse sono sempre impari, e quindi, secondo la teoria delle probabilità, qualcuno sbagliava. Secondo la teoria della azione razionale c'era qualcuno che non agiva in modo corretto: o erano insensate le persone al centro, perché scommettevano somme pari su una situazione impari, oppure lo erano le persone all'esterno, perché scommettevano somme impari su una situazione pari. Mi divenne sempre più chiaro che le quote venivano fissate seguendo determinate linee di condotta proprie della struttura e dei gruppi sociali. Si scommetteva sul gallo del proprio gruppo, anche se i galli arrivati da fuori erano sempre favoriti, perché si pensava che - se qualcuno li aveva portati - dovevano essere fortissimi. Alla fine, il tutto cominciò a delinearsi come una lotta tra diversi gruppi per lo status e il prestigio sociale - e allora le scommesse acquistavano un senso. Non avevano senso, cioè, in termini di teoria delle probabilità o di teoria dell'azione razionale, ma ne avevano in base al modo in cui, a Bali, i gruppi parentali, gli individui, le caste e le classi privilegiate competono tra loro. E questo, di fatto, un aspetto importantissimo di quella cultura. Emerse quindi che i combattimenti dei galli, anziché essere avvenimenti frivoli, erano in realtà molto vicini al cuore degli interessi principali dei balinesi. E questo non perché lo status venga determinato dai combattimenti dei galli (esso viene infatti determinato, come al solito, dalla nascita e da altri fattori, come per esempio la ricchezza), ma perché in questa occasione esso viene messo in risalto, viene drammatizzato, trasformandosi così in un testo. E come tale si offre alla lettura dell'antropologo. Con questo non intendo tuttavia affermare che necessariamente i balinesi darebbero questa interpretazione dei combattimenti dei galli, ed anzi impossibile che lo facciano, perché essi si limitano a vivere tali avvenimenti.

Il Metodo dell'Antropologia

Professor Geertz, Lei, nel suo libro Opere e vite, ha parlato di due tipi diversi di ansia. Da una parte c'è il timore dello scienziato di non essere sufficientemente distaccato; dall'altra c'è il timore dell'umanista di esserlo troppo. Lei crede che la differenza fra scienziato e umanista sia il vero discrimine oggi in antropologia?

No, non credo che la catturi del tutto. Il mio scopo principale era quello di indicare questa ambiguità. Secondo la vecchia concezione l'antropologia va considerata alla stregua di una scienza naturale; di conseguenza gli studiosi di tale disciplina dovevano mantenere un certo distacco dall'oggetto di studio.

D'altro canto è evidente - e lo è sempre stato - che non si può capire la gente senza interagire con essa dal punto di vista umano. Non credo che lo schema che ne deriva debba essere necessariamente "scienze naturali contro scienze umane"; ma senza dubbio si tratta di un problema e di una preoccupazione molto diffusa. Esistono certamente molte altre posizioni contrastanti al riguardo, ma in questo caso il mio interesse era quello di cogliere questo aspetto, che negli anni è diventato sempre più acuto: la sensazione di essere talmente "obiettivo" nei confronti delle persone da trattarle come oggetti e, di conseguenza, non essere in grado di comprendere in maniera adeguata le loro emozioni, i sentimenti, le attitudini e la loro visione del mondo.

Allo stesso tempo, è anche vero che gli antropologi cercano di non essere esclusivamente "soggettivi": non vogliono comunicare solo la loro impressione, o l'idea che si sono fatti al riguardo, non vogliono parlare di intuizioni. C'è, quindi - e diventa sempre più seria - una certa preoccupazione su entrambi i punti.

Parte del problema sta nel fatto che l'antropologia non possiede una forte tradizione teorica autonoma. Certo le teorie esistono, così come esistono alcuni studiosi di antropologia che si occupano solo di teoria, ma non basta. Si tratta di un campo molto difficile da definire e, di conseguenza, caratterizzato da una serie di preoccupazioni che riguardano l'immagine che l'antropologia ha di sé, la sua natura stessa, in che cosa essa consista realmente. Una delle domande che gli antropologi si sono sempre posti è la seguente: che differenza c'è fra l'antropologia e la sociologia? E' una domanda a cui non si è trovata risposta, a parte forse il dire che "l'antropologia è meglio": ma certo non sono andati oltre.

Non c'è una teoria suprema, né un metodo generale. C'è il metodo empirico, quello usato "sul campo"; ma in fondo non significa nulla, perché alcuni eseguono lo studio in modo più oggettivo possibile, limitandosi a prendere nota di tutto quello che vedono, mentre altri svolgono lunghe e approfondite interviste. Sempre di antropologia si tratta.

Per questo oggi si cerca da più parti di circoscrivere il tutto attraverso una specie di definizione ideologica di questa disciplina. Si assiste quasi a uno scontro fra coloro che hanno concezioni diverse su quello che facciamo e quello che invece dovremmo fare.

Secondo me la distinzione fondamentale va fatta fra quelli che insistono per una teoria generale della società, da cui poi trarre conseguenze pratiche da applicare ai casi specifici, e quelli - fra cui mi metto anch'io - che desiderano comprendere società diverse per poter interagire con esse in modo intelligente negli anni a venire.

Credo che questa sia una differenza molto più profonda - che tende ad esprimersi in termini del modello di impegno o disimpegno - rispetto a quella tra scienza naturale e scienza umana, o a un'altra analoga.

Il Concetto di carisma

Il concetto di carisma è andato degenerando col tempo. Oggi indica in genere "fascino" o "'popolarità". La sua origine cristiana, in realtà, indicava una straordinaria forza personale di origine trascendente. Ho cercato di ricostruire il significato profondo di questo concetto piuttosto che accettarlo solo nella sua odierna accezione, secondo la quale chiunque può essere carismatico...anche Madonna è carismatica. Ho preso ad esempio i re di Giava del XIV secolo, la regina Elisabetta I d'Inghilterra e i re del Marocco del XIX secolo, e ho cercato di dimostrare come il carisma fosse costruito attraverso determinati rituali che riguardavano la regalità, soprattutto i viaggi dimostrativi che i sovrani compivano all'interno del loro regno. Ognuno dei tre ricorreva spesso a questa forma rituale ma in maniera molto diversa, il re di Giava creava il proprio carisma attraversando tutto il territorio del regno mettendosi in mostra come fosse un dio e imponendo la propria immagine alla società. Quando Elisabetta I salì al trono, la sua legittimità non era solide a causa di tutti i conflitti dinastici che si erano verificati fino ad allora. La sua soluzione, quindi, fu quella di viaggiare per tutto il paese e organizzare una sorta di spettacolo teatrale itinerante incentrato sulla sua figura. Nel XIX secolo, i re del Marocco compivano vere e proprie incursioni in varie parti del paese per dimostrare forza, autorità, vigore e vitalità.
Abbiamo, dunque, tre modi diversi di stabilire cosa significa essere un re. Il primo è, in un certo senso, di tipo estetico, la monarchia di Giava come centro di irradiazione di incanto e magia, il secondo è di tipo morale, la regina come erede della tradizione morale inglese e, infine, il terzo che è una sorta di esercizio di forza del potere. In tutti e tre i casi re e regina si rivelano figure carismatiche il cui carisma veniva costruito in modi diversi: non erano semplicemente affascinanti o popolari per nascita, si erano costruiti intorno una storia che attribuiva loro un'importanza sovrumana. Credo che sia proprio grazie alla loro diversità che si riesca a capire tutto questo. Se ne fosse esistito solo uno, il tutto non sarebbe stato altrettanto chiaro. Se però li mettiamo a confronto l'uno con l'altro ci rendiamo conto di come il carisma venisse creato in modo diverso in ciascuno dei tre casi presi in esame.

Temi e problemi dell'antropologia contemporanea

Clifford Geertz incomincia coll'individuare il cambiamento di prospettiva intervenuto nell'antropologia contemporanea, che ha spostato l'attenzione dalle isole sperdute alle società complesse, per comprendere le quali sono necessarie altre discipline e nuovi metodi, oltre agli studi prodotti dagli appartenenti alle società oggetto di indagine. Le opere più riuscite sono quelle che comunicano la sensazione di potersi immergere nelle società presentate, come avviene negli studi di Leach, Fortes, che vissero a lungo con le popolazioni studiate . L'antropologia è un campo di assai difficile definizione, soprattutto se la si vuole etichettare secondo l'alternativa: scienze naturali o scienze umane; non c'è una base teorica solida che la distingua, per esempio, dalla sociologia; la distinzione fondamentale sarebbe invece tra lo scopo operativo di una teoria della società e l'intento di comprensione del diverso per una futura interazione. Geertz sottolinea l'importanza dell'aspetto creativo della scrittura, riferendosi a Lévi-Strauss e a Evans-Pritchard e distinguendo, sulla base di numerosi esempi, tra gli autori di metodi innovativi e coloro che applicano un certo stile di lavoro. L'accentuazione della funzione dell'antropologo come autore che interpreta una cultura esprimendo una propria opinione discutibile, contraddice l'idea di un lavoro che si svolgerebbe in maniera affatto obiettiva. Geertz presenta quindi Tristi Tropici di Lévi-Strauss come un testo a molti livelli in cui si esprime il mito della ricerca e il tentativo di comprensione dell'«altro». Non esiste un modello di antropologo, ma modelli diversi, Geertz presenta a questo proposito la figura di Evans-Pritchard e il suo studio su I Nuer, del tutto antitetico rispetto all'impostazione di Lévi-Strauss. Malinowski è sempre presente nel testo che scrive come un osservatore situato, che reagisce e interagisce con l'altra cultura. Attraverso questi vari stili ci si è allontanati dal realismo etnografico della monografia classica, tentando altri modelli di scrittura, come il saggio o il diario. Geertz presenta quindi la figura della Benedict e i suoi studi sul Giappone, con il loro risvolto di critica sociale ai pregiudizi nel contesto di guerra in cui si colloca tale lavoro. Ormai esistono molti antropologi giapponesi o di origine giapponese e pertanto si è instaurato un dialogo che ha spostato il centro della prospettiva, facendo dell'antropologia una scienza non solo occidentale, ma un patrimonio di tutta l'umanità. La cooperazione è necessaria anche in seguito alla fine dei rapporti coloniali, per concludere Geertz riflette sull'incertezza che caratterizza l'antropologia contemporanea e sul persistente bisogno di comprendere che la caratterizza .

Il paradigma ermeneutico nell'antropologia contemporanea

Non si può distinguere nettamente per Clifford Geertz tra scienze della natura e scienze dello spirito, occorre cercare invece i molteplici collegamenti tra le discipline, soprattutto per quanto riguarda le scienze sociali . Geertz riconosce di essere stato influenzato in particolare dall'ermeneutica contemporanea, le cui idee generali ha cercato di applicare a problemi di ordine pratico, mentre mettere a punto modelli di scelta razionale, secondo l'antropologo americano non ha molto senso, poiché è più importante conoscere i contesti delle scelte, come per esempio le informazioni. E' inoltre semplicistico - secondo Geertz - incorporare i simboli in una teoria della scelta razionale, giacché in essi si ha l'interpretazione profonda della rete culturale . L'estensione all'antropologia della pratica ermeneutica nasce dalla necessità di interpretare eventi altrimenti confusi, come se si trattasse della lettura di testi. Geertz riflette quindi su un episodio di fallimento di un funerale giavanese a causa di un dissidio religioso e culturale, che presto sarebbe sfociato nello scontro aperto. In un caso del genere l'analogia testuale è efficace, perché si tratta di capire il punto di vista di un certo contesto collocandolo in un contesto più ampio . A partire da casi specifici si tende poi a generalizzare, a questo proposito si riferiscono osservazioni fatte in Marocco sull'insediamento in città di gruppi rurali a tendenza progressista e sulle reazioni dei gruppi tradizionali anche riguardo ad aspetti marginali della convivenza, come la decorazione delle abitazioni. L'ermeneutica è usata per fini pratici di interpretazione e considerata una "forma mentis". Non esiste un fondamento metodologico definitivo per l'antropologia o per le scienze umane, perché ogni caso particolare presenta problema diverso, di cui si deve cogliere la specificità. La formulazione di una teoria antropologica onnicomprensiva non rientra affatto nelle aspirazioni scientifiche di Geertz ed anche stilisticamente, più che la monografia classica egli ama il saggio, anche se questo non significa non mirare a conclusioni generali . Nel confronto con Trilling e con il tema delle implicazioni morali in letteratura, Geertz pone il problema del contenuto morale delle varie culture, affrontando di nuovo le usanze funebri nell'isola di Bali e riferendosi anche ai fenomeni letterari dei dopoguerra europei . Riflettendo sulla traduzione, non solo tra lingue, ma anche tra culture diverse, Geertz sostiene poi la necessità che l'antropologo scriva per un pubblico diversificato e non solo per gli specialisti . Per concludere Geertz ricorda i suoi studi sul concetto di carisma e l'uso dell'espressione rituale e carismatica del potere da parte dei re di Bali, del Marocco e dell'Inghilterra.

 


online source: http://www.lex.unict.it/anno_accademico/dir_italiano/m-z/materiale/b/geertz.htm


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