ARMANDO MASSARENTI

 

Antropologi, l' "Altro" non Ë pi˜ un marziano

 

(Clifford Geertz, "Antropologia e filosofia", il Mulino, Bologna 2001, pagg. 230, L. 32.000)

 

Clifford Geertz ñ Guardare le altre civiltý "da lontano" Ë un lusso che non ci possiamo permettere: gli "alieni" sono tra noi e creano dilemmi che ci costringono a fare inediti esercizi di immaginazione morale

 

 

Nel 1971, Claude LÈvi-Strauss, invitato a un convegno dellíUnesco, irritÚ líuditorio con una tesi che ben pochi si sarebbero aspettati da un antropologo. Líetnocentrismo, disse, non Ë affatto una cattiva cosa, e non va confuso con il razzismo. Non cíË niente di male a porre il proprio modo di vivere e pensare al di sopra di uníaltra cultura o civiltý che si discosta troppo dai valori e dalle usanze cui siamo abituati. Naturalmente, diceva LÈvi-Strauss, questo non autorizza nessuno a opprimere o respingere quei valori e coloro che ne sono i portatori. Significa invece riconoscere che una certa impermeabilitý tra le culture Ë inevitabile e addirittura auspicabile, perchÈ Ë solo in questo modo, chiudendosi agli altri, che si possono preservare sistemi di valori come entitý distinte capaci di rinnovarsi al proprio interno. Che líumanitý, animata da un encomiabile spirito di fratellanza universale, possa liberarsi del tutto dallíetnocentrismo Ë uníillusione, un ideale mal posto. Semmai dovremmo preoccuparci della graduale fine dellíetnocentrismo ó e non solo, non tanto, di quello di noi occidentali ó dovuta al fatto che le culture, anche le pi˜ lontane e "primitive", sono destinate a comunicare sempre di pi˜ tra loro, spingendosi troppo in lý nel riconoscimento delle diversitý rispetto ai tempi in cui, allíopposto, ognuna di esse considerava se stessa lí"unica vera", lí"unica umana", e guardava agli abitanti appena di lý dal fiume come a "scimmie di terra" o "uova di pidocchio".

 

Questa difesa di uno Sguardo da lontano ó tale Ë il titolo del libro che LÈvi-Strauss pubblicÚ poco dopo ó Ë irritante perchÈ, al di lý di come si giudichino quelle affermazioni, "tocca un nervo scoperto della contemporaneitý", e pone forse la pi˜ profonda e attuale delle questioni di cui Clifford Geertz si occupa nel suo ultimo libro, Antropologia e filosofia, una riflessione sullo "stato dellíarte" e sullo statuto metodologico della sua disciplina. Attraversata da "mari post-moderni", assediata da analisi impressionistiche raggruppate sotto líetichetta vaga dei Cultural studies, lontana dai semplici, "bei vecchi tempi di vedove bruciate e di cannibalismo", alle prese con una "diversitý" che certo non scompare, anzi si moltiplica, ma che non assume pi˜ i connotati della completa alteritý e che dunque non permette pi˜ comodi giudizi (o sospensioni di giudizio) dallíesterno, da lontano, líantropologia ha bisogno di una ridefinizione dei propri assunti di fondo. E nel far questo la riflessione filosofica non puÚ che giovarle, purchÈ essa sia pertinente e calata nei modi concreti della ricerca sul campo, cui Geertz ha dedicato 40 anni di vita, lasciandoci memorabili resoconti dei suoi viaggi in Indonesia e Marocco. Il Wittgenstein dei "giochi linguistici" e delle "forme di vita" Ë stato líideale compagno di viaggio di Geertz, che qui tratta questioni come il rapporto mente-cervello-cultura, líidentitý e la conoscenza, líinsufficienza della distinzione tra scienze della natura e scienze dellíuomo, e discute il pensiero di filosofi come Taylor, Rorty, James, Dewey, storici della scienza come Kuhn, psicologi come Bruner, neurobiologi come Damasio ed Edelman.

 

Ma il cuore delle riflessioni di Geertz riguarda lo sfondo morale della disciplina, che Ë anche quello della vita quotidiana nelle societý democratiche. Gli antropologi, che sempre meno di occupano di ciÚ che Ë esotico, lontano, incontaminato, "primitivo", e sempre pi˜ si calano nella "diversitý" che alberga nelle societý in cui viviamo, "dovranno imparare a cimentarsi con le differenze pi˜ sottili", i loro scritti "dovranno diventare pi˜ acuti anche se meno spettacolari", ma ó scrive Geertz ó "ciÚ solleva una questione pi˜ ampia, morale estetica e cognitiva a un tempo, che Ë molto pi˜ inquietante, e che sta al centro di gran parte dellíattuale discussione sul modo in cui i valori devono essere giustificati". Questione che egli chiama del "futuro dellíetnocentrismo", e che contiene il sÈ quella pi˜ generale del relativismo dei valori e delle culture. Nel saggio "Anti-anti-relativismo" Geertz attacca gli autori che dal relativismo, implicito e inevitabile nella ricerca antropologica, traggono immediatamente conseguenze drammatiche ed estreme, interpretandolo come líanticamera del soggettivismo, del nichilismo, del machiavellismo morale. Geertz critica queste forme di antirelativismo perchÈ possono spingerci a tornare a un diffuso disinteresse nei confronti dello studio della diversitý umana, proprio nel momento in cui essa assume nuove forme, pi˜ sottili e insinuanti, che ci ritroviamo sotto casa. Ma attaccare líanti-relativismo non significa difendere il relativismo, soprattutto da un punto di vista morale. Per questo il futuro dellíetnocentrismo non puÚ essere inquadrato nei termini di LÈvi-Strauss, il quale ha anticipato una tendenza oggi assai diffusa tra filosofi, storici e scienziati sociali. Il fatto Ë che le societý, le forme di vita (soprattutto le nostre), non sono affatto impermeabili alla comprensione e allíaccoglienza dei valori e delle culture altrui, anche se la compresenza di individui e gruppi reciprocamente "alieni" crea dilemmi inediti, difficili da trattare razionalmente. Tali dilemmi non sorgono ai confini tra la nostra e le altrui culture, ma dentro le nostre societý: le culture sono "altre" per noi, non da noi. Se pure Ë vero, come sosteneva Wittgenstein, che "i limiti del mio linguaggio delimitano i limiti del mio mondo, ciÚ non implica che la portata delle nostre menti, di quello che possiamo dire, pensare apprezzare e giudicare sia intrappolata nei confini della nostra societý, del nostro paese, della nostra classe o del nostro tempo, ma che la portata delle nostre menti, ossia la gamma dei segni che possiamo riuscire in qualche modo a interpretare, Ë ciÚ che definisce lo spazio morale emozionale e intellettuale in cui viviamo". "Quanto pi˜ grande Ë tale spazio", sostiene Geertz, quanto pi˜ grande potrý diventare la nostra capacitý di capire che cosa si prova a essere qualcuno che crede che la terra sia piatta, o a essere un vandalo, un cannibale, un fondamentalista islamico, un punk o un figlio dei fiori, senza per questo accettare o approvare quel modo di vita. E pi˜ acuta diventerý la nostra capacitý di fronteggiare dilemmi come quello ó raccontato da Geertz ó dellíindiano alcolizzato che, malato di reni, ha ottenuto líuso della macchina del rene artificiale ma non ha voluto smettere di bere perchÈ líessere alcolizzato per lui era un tratto essenziale e ineliminabile della propria identitý, nÈ ha voluto cedere per questo il diritto di usare la macchina a chi ne aveva certamente pi˜ bisogno. Di fronte a tali dilemmi, nÈ líuniversalismo nÈ il relativismo offrono soluzioni soddisfacenti. CiÚ di cui cíË bisogno Ë una pi˜ duttile e diffusa immaginazione cognitiva e morale: come quella che i migliori antropologi hanno potuto sviluppare iterpretando sul campo valori e culture.

 


in "Il Sole 24 ore", online: http://lgxserver.uniba.it/lei/rassegna/010923o.htm


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